09 gennaio 2010

LE QUOTE ITALIANE e lo sconcertoeuropeo

di Alessandro Cislin
O gni volta che la Gelmini cita l’Europa, i funzionari
europei rispondono con ilari schiamazzi convertiti
pubblicamente in un diplomatico silenzio. Era
successo ad esempio con la decantata valorizzazione
dell’inglese che, nelle modalità imposte dalla ministra,
ovvero scegliendo il risparmio e i tagli di insegnanti,
perciò penalizzando le altre lingue europee,
ha subito incontrato l’altolà di Bruxelles. In questo
caso però si decompone anche l’ilarità e resiste solo
lo sgomento. La norma del trenta per cento è talmente
clamorosa che sta facendo il giro del mondo nei
blog di ogni lingua e latitudine. Un giro di telefonate
con gli operatori della scuola in Inghilterra, Francia,
Germania e Spagna – interpellando anche insegnanti
di destra – lo conferma: la misura è ritenuta ovunque
“fa s c i s t a ” e porrebbe l’Italia al di fuori non solo
dell’Europa ma dell’intero ambito del diritto internazionale.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti
del Fanciullo, ratificata e resa esecutiva dalla legge
176 del 1991, stabilisce l’assenza di limiti di sorta, e
men che meno di origine etnica, religiosa o linguistica
alla “gratuità dell’insegnamento”, prevedendo
“l’offerta di una sovvenzione finanziaria in caso di necessità”
(articolo 28), e precisando che l’offerta formativa
debba formularsi “indipendentemente dalla
nazionalità, status di immigrazione o apolidia” (ar ticolo
2). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo
è un po’ più scarna ma stabilisce ugualmente
che: “Il diritto all’istruzione non può essere
rifiutato a nessuno”. In pratica non ci
possono essere limiti, e quindi le quote sono
inimmaginabili. E qui il diritto non è
un’astratta formulazione ma il risultato univoco
e concreto delle più disparate tradizioni
europee in materia di integrazione. Ai
poli opposti: il pragmatismo britannico,
che accetta e tutela territori etnicamente
separati, e l’etica transalpina della “cito -
ye n n e t é ”, che ambisce a un’egualitaria formazione
universale ai valori della nazione.
In ambedue i casi la discriminazione risulterebbe inconcepibile:
nel primo suonerebbe come una forzatura
illiberale, nel secondo come une un’astrusa costrizione
a uscire dal proprio quartiere per trovare un
istituto sufficientemente denso di “autoctoni” da poter
rientrare nelle quote. La norma del trenta per cento
non trova infatti pari nel resto dell’Unione Europea,
dove le uniche discriminazioni ammissibili sono
quelle “p o s i t i ve ” nei confronti degli immigrati, non
certo “quelle” negative. Non è cioè pensabile stabilire
“un massimo di”, tutt’al più lo è il “minimo” sta -
bilito a beneficio degli stranieri, come avviene in alcuni
settori dell’amministrazione. Un precedente tuttavia
c’è ed è rappresentato dalla Croazia. Il caso di
quattordici ragazzi rom inseriti in classi separate è
giunto all’attenzione della Corte europea dei diritti
dell’uomo. La risposta dei giudici di Strasburgo è stata
ambigua ma pesante: non possiamo intervenire sulla
legislazione di Zagabria, ma le famiglie devono esser
risarcite di duemila euro di danni morali cui vanno
sommate le spese legali. Forse i consulenti della Gelmini
non l’hanno informata sulle probabili conseguenze
del suo dono al populismo leghista. La reazione
europea non consisterà solo in qualche richiesta
di “chiar imento” o in qualche editto morale di
“condanna”. Si tratterà forse di tirar fuori soldi pubblici
per affrontare contenziosi continentali e le relative
sconfitte, che dall’Italia si annunciano ben più
estese rispetto alla piccola Croazia. La Commissione
per ora schiva: “Aspettiamo i risultati concreti”, ben
sapendo però che l’esito sarà giudiziario, a spese dei
contribuenti italiani, oltre che dei diritti universali.

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