24 agosto 2006

PERCHE’ PARLARE DI ANTISEMITISMO?

Ho letto con attenzione l’articolo di Guido Rampolli (Repubblica del 20,8,06) dal titolo emblematico “Menzogne antisemitiche”. Rampolli parte da due sue verità, sicuramente condivise da parecchi lettori:
la prima ci dice che la sinistra radicale equipara Israele al Terzo Reich
la seconda che la stessa “idiozia” è ricorrente nel conformismo arabo.
“Alla confluenza tra queste due culture si colloca la pubblicazione a pagamento di un annuncio dell’UCOII (Unione delle comunità islamiche d’Italia) da titolo Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane, seguito da un elenco delle stragi attribuito al governo israeliano.
Ovviamente il titolo è piuttosto forte e non realistico, ma la pubblicazione che non può essere liquidata “come un’espressione di stupidità” e per di più, nel complesso minoritaria, anche se non solitaria in Europa”, merita qualche riflessione che va fatta con serenità e, continuo a ripeterlo, senza ipocrisia e paura di andare controcorrente, con quell’umiltà che sola porta alla conoscenza o, quanto meno, ad una consapevolezza più oggettiva e condivisa.
Per far ciò occorre innanzitutto evitare di tacciare di antisemitismo tutti coloro che si pongono il problema cercandone, partendo anche da una provocazione, la soluzione.
E, ancora, chiamare col giusto nome quelle azioni israeliane che il più delle volte vengono giudicate come legittime perché finalizzate alla sua esistenza e sicurezza, ma che se commesse dai palestinesi diventano atti di terrorismo o espressioni criminali.
Spesso mi chiedo se fatti storici aberranti, coevi e non, come Hiroshima, l’olocauso, Sabra e Chatila, possano contribuire a formare un giudizio di merito su un popolo che ne giustifichi altri altrettanto feroci. A creare, insomma, l’immagine di un popolo circondato e odiato, sul punto di essere cancellato dalla storia, che per difendersi usa spesso metodi poco ortodossi ad altri non permessi.
Ciò non vuole essere un atto d’accusa né una giustificazione di atti di terrorismo di gruppi palestinesi, m un elemento da tenere in considerazione per considerare il problema israelo-palestinese da un’altra angolazione.
Non basta, quindi, affermare che “l’eguaglianza tra Israele e Nazismo è radicatissima nel Mediterraneo musulmano, soprattutto nel certo medio erudito”, ma occorre porsi due domande:
perché è così diffusa l’equazione Israele = nazismo; può essere legata al fatto che dal Novembre 1947 (prima risoluzione ONU) lo stato di Palestina non si è realizzato mentre Israele è cresciuto imponendo l’occupazione, addirittura attraverso la colonizzazione, di territori non suoi?
perché è il ceto più erudito a porre la suddetta equazione e non come sarebbe più logico la classe popolare meno colta?
se Israele ha il diritto, sacrosanto, di esistere perché ai palestinesi non si riconosce lo stesso diritto senza imporre condizioni pretestuose e inaccettabili (o si deve pensare che ciò viene concepito ad arte)?
se le elezioni in Israele sono il sale della democrazia, perché non sono considerati tali in Palestina?
Se i parlamentari e i ministri di un governo legittimamente eletto sono inviolabili, perché nove ministri palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliane dopo essere stati prelevati nella striscia di Gaza?
se l’Occidente condanna le stragi dei kamikaze, perché non condanna con la stessa fermezza la strage di Qana o i bombardamenti su Beirut?
A queste si possono aggiungere tante altre domande. Per esempio, se Israele ha violato la precaria tregua con un blitz a Baalbek nel nord del Libano, lontano dal suo confine, perché non ha suscitato l’indignazione di media e dei politici come è successo con l’annuncio dell’UCOII?
Penso che rispondere a queste domande possa dare una visione più completa della complessità dei problemi del Medio Oriente e una chiave di lettura più “meditata” per determinare una possibile soluzione che deve prevedere nascita dello Stato palestinese allo stesso modo in cui nel lontano dopoguerra è nato quello d’Israele.
Non so quale debba essere il compito dei politologi ma, di fatto, si limitano ad esaminare fatti e situazioni, spesso usando schemi strutturali parziali e di parte, limitandosi a condannare o a giustificare senza proporre soluzioni che rimandano ai politici. E’ quanto emerge dall’articolo di Rampolli che contiene un appello, anche se molto cauto, che io faccio mio, senza il “forse” introduttivo: “Forse anche per questa necessità di capire, mai come oggi nelle democrazie liberali, e certamente in Italia, si avverte la necessità di un’informazione che non imbrogli. Di una politica che non si trinceri dietro slogan tanto roboanti quanto vuoti”.
Borgetto 22, 08, 06

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