Il presidente Napolitano ha firmato con una velocità sorprendente la legge che introduce l’immunità per le più alte cariche dello Stato (lodo Alfano). Berlusconi, tronfio ma felice dichiara che “finalmente i magistrati non mi perseguiteranno più” e “ora posso trascorrere i sabati a lavorare”.
Abbiamo, unica democrazia al mondo, una legge che protegge le più alte cariche dello Stato da qualsiasi azione giudiziaria, con la sola eccezione di una rinuncia personale…cosa piuttosto remota, eccetto che la Cassazione non accetti la ricusazione del giudice Gandus e il processo debba essere nuovamente istruito.
In tutto ciò, appare strano che le motivazioni d’incostituzionalità addotte dalla Corte Costituzionale per il lodo Schifani (veniva, di fatto, mortificato l’art.3 della Costituzione secondo cui tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge), che portarono alla ricusazione della legge, siano stati superati con l’estensione delle garanzie ad altri componenti, come se questi ultimi nel loro “piccolo” rappresentino la totalità degli Italiani.
Sarebbe stato comprensibile che la legge si riferisse ad atti legati all’aspetto politico, riguardanti, cioè, l’azione di governo e non coinvolgesse atti che nulla hanno a che fare con essa (presunta corruzione, presunta evasione fiscale…). Paradossalmente, potremmo essere governati o rappresentati da personaggi con processi in corso che comportano reati gravissimi, possibilmente comprovati, e vedere tutto sospeso solo perché il popolo sovrano (?) li ha votati.
Si procederà, quindi, con l’immunità parlamentare, che tangentopoli spazzò via, saldando così i due estremi della circonferenza: il primo riguarda, per non dimenticare, l’espropriazione del diritto di scegliere i parlamentari col voto di preferenza; il secondo l’annullamento, di fatto, dell’art. 3 della Costituzione. Il potere non sarà esercitato dai cittadini, ma da un’oligarchia autodeterminatasi, che produrrà l’asfissia della Repubblica Parlamentare.
E l’opposizione? Casini e Veltroni, come se vivessero in un altro Stato, ma fanno pur sempre parte della casta, parlano di atto dovuto con riferimento alla firma di Napolitano, ma la cosa li tange poco, visto che si sono dissociati dalla proposta avanzata da Di Pietro di un referendun abrogativo.
Ormai, on. Di Pietro, cosa fatta capo ha e domani la legge potrebbe riguardarli. Bisogna solo stabilire quando verrà il loro domani!
26 luglio 2008
22 luglio 2008
GIUSTIZIALISMO PAROLA ABUSATA
La parola giustizialismo indica il movimento politico argentino fondato da J.D.Peron negli anni 50. Nel linguaggio comune di oggi s’intende l’utilizzazione della magistratura come strumento di lotta politica. Come parola abusata, cui vengono attribuiti vari significati e attribuzioni, diventa “onni-significativa”.
Diventa, infine, un’infamante arma politica che permette a chi la usa di colpire chiunque osi affrontare l’argomento “giustizia” nel suo vero significato e considera la magistratura come uno dei tre poteri fondamentali su cui si fonda lo Stato moderno (Montesquieu docet, “Lo spirito delle leggi”), separato degli altri (legislativo ed esecutivo) e indipendente.
Mi sembra corretto che le cosiddette leggi ad personam (rogatorie internazionali, decorrenza dei termini, lodo ex Schifani e ora Alfano), cioè studiate apposta per salvare un perseguito da una sentenza o per evitare che il processo giunga alla sentenza, vengano discusse in Parlamento dove i politici possono prendere posizioni diverse, addirittura oppposte, senza per questo essere additati a pubblico ludibrio.
Ma le cose, nel nostro Parlamento non stanno proprio così e si fa un uso molto improprio, a mio vedere, della parola ”giustizialismo”. Così Di Pietro, ex giudice di mani pulite e destinatario allora di una proposta ministeriale da parte dell’attuale premier, è un giustizialista perché osa opporsi all’uso personale del Parlamento e dell’Esecutivo (come si chiamerebbe? Dittatura democratica o Democrazia dell’Apparenza).
Il decreto bloccaprocessi e il lodo Alfano sono gli ultimi esempi dell’uso personale e distorto che una maggioranza condizionata e perciò umiliata fa del Parlamento e della giustizia.
Penso, come moltissimi italiani, che il capo di un governo non debba aver problemi con la giustizia e che non spetti né a lui né ai suoi parlamentari sostituirsi alla giustizia, decretando una sentenza d’innocenza.
Penso ancora che sarebbe una garanzia per i cittadini se il capo del governo chiedesse di essere giudicato, chiedendo una rapida conclusione del processo, dimostrando così a tutti la sua innocenza non presunta.
Penso, infine, che gli italiani sarebbero contenti di essere governati da un premier senza pendenze di varia natura, se, insomma, Mills fosse un giustizialista dedito alla calunnia e alla diffamazione.
Un parlamento che decreta la fine della giustizia uguale per tutti, quella, per intenderci, con la bilancia perfettamente in linea, si può chiamare un parlamento “giustizialista” o un parlamento “di tutela” o un parlamento “di rappresentanza istituzionale”…per le grandi occasioni. Non dimentichiamo che fra qualche anno si eleggerà il presidente della Repubblica ed è giusto che la strada sia sgombra.
Diventa, infine, un’infamante arma politica che permette a chi la usa di colpire chiunque osi affrontare l’argomento “giustizia” nel suo vero significato e considera la magistratura come uno dei tre poteri fondamentali su cui si fonda lo Stato moderno (Montesquieu docet, “Lo spirito delle leggi”), separato degli altri (legislativo ed esecutivo) e indipendente.
Mi sembra corretto che le cosiddette leggi ad personam (rogatorie internazionali, decorrenza dei termini, lodo ex Schifani e ora Alfano), cioè studiate apposta per salvare un perseguito da una sentenza o per evitare che il processo giunga alla sentenza, vengano discusse in Parlamento dove i politici possono prendere posizioni diverse, addirittura oppposte, senza per questo essere additati a pubblico ludibrio.
Ma le cose, nel nostro Parlamento non stanno proprio così e si fa un uso molto improprio, a mio vedere, della parola ”giustizialismo”. Così Di Pietro, ex giudice di mani pulite e destinatario allora di una proposta ministeriale da parte dell’attuale premier, è un giustizialista perché osa opporsi all’uso personale del Parlamento e dell’Esecutivo (come si chiamerebbe? Dittatura democratica o Democrazia dell’Apparenza).
Il decreto bloccaprocessi e il lodo Alfano sono gli ultimi esempi dell’uso personale e distorto che una maggioranza condizionata e perciò umiliata fa del Parlamento e della giustizia.
Penso, come moltissimi italiani, che il capo di un governo non debba aver problemi con la giustizia e che non spetti né a lui né ai suoi parlamentari sostituirsi alla giustizia, decretando una sentenza d’innocenza.
Penso ancora che sarebbe una garanzia per i cittadini se il capo del governo chiedesse di essere giudicato, chiedendo una rapida conclusione del processo, dimostrando così a tutti la sua innocenza non presunta.
Penso, infine, che gli italiani sarebbero contenti di essere governati da un premier senza pendenze di varia natura, se, insomma, Mills fosse un giustizialista dedito alla calunnia e alla diffamazione.
Un parlamento che decreta la fine della giustizia uguale per tutti, quella, per intenderci, con la bilancia perfettamente in linea, si può chiamare un parlamento “giustizialista” o un parlamento “di tutela” o un parlamento “di rappresentanza istituzionale”…per le grandi occasioni. Non dimentichiamo che fra qualche anno si eleggerà il presidente della Repubblica ed è giusto che la strada sia sgombra.
19 luglio 2008
UN VOTO DI FIDUCIA PER LE COSE DA FARE
Il governo ha posto il voto di fiducia alla Camera sul decreto sicurezza, nonostante l’enorme disponibilità di numeri. Ora il decreto passerà al Senato dove sarà tranquillamente approvato.
Fermo restando che il voto di fiducia è normale prassi parlamentare, mi riesce difficile capire perché un governo con una schiacciante maggioranza l’abbia posto. Mi ritornano in mente le violente critiche del centro destra ogni qual volta Prodi poneva il voto di fiducia, condizionato da una maggioranza risicata e litigiosa, sempre pronta a diventare opposizione.
Allora era una questione di sopravvivenza ora di premura. I contenuti del decreto, oltre alla sicurezza contiene norme sull’economia e sulla giustizia, proprio per l’importanza che rivestono, meritavano un’ampia discussione in Parlamento, anche in virtù della sempre dichiarata disponibilità del premier di cercare la collaborazione dell’opposizione. Ma, si sa, verba volant…
L’imposizione del voto di fiducia ha dimostrato che l’attuale governo non ha nessun interesse né di discutere i provvedimenti in Parlamento né di chiedere la collaborazione dell’opposizione, se non per la prossima legge per le elezioni europee per eliminare del tutto i mini partiti della sinistra, complice Veltroni, in questo caso insostituibile spalla.
E’ il solito cliché che si ripete sempre identico: l’opposizione non collabora, è d’impedimento, noi procederemo per la nostra strada, il popolo italiano ci ha largamente votato e suole essere da noi governato...
Sarebbe opportuno, conoscendo il pensiero del leader massimo, certificati i numeri del Parlamento, sostituire le presenze con deleghe e, come in un’assemblea condominiale, approvare le decisioni, senza ripetere, come spesso accade, momenti d’indecenza parlamentare (sputi, litigi, parolacce, spintoni…).
Visto come si è votato e il ruolo che hanno avuto le segreterie dei partiti nel definire l’elenco dei candidati in ordine d’eleggibilità (una parola usata impropriamente in quanto il candidato non è stato eletto, cioè scelto, dal popolo sovrano), sarebbe consequenziale, come in una SpA, affidare l’amministrazione ad un Consiglio che per la verità già c’è, il Consiglio dei ministri, plasmato dal presidente del CdA.
L’opposizione potrebbe dedicarsi, finalmente, a far capire ai cittadini, chi rappresenta, quali obbiettivi si pone, come intende affrontare la crisi economica in atto, quale idea di nuova società guiderà, insomma, la sua azione politica, attualmente, per la verità, piuttosto moscia.
Fermo restando che il voto di fiducia è normale prassi parlamentare, mi riesce difficile capire perché un governo con una schiacciante maggioranza l’abbia posto. Mi ritornano in mente le violente critiche del centro destra ogni qual volta Prodi poneva il voto di fiducia, condizionato da una maggioranza risicata e litigiosa, sempre pronta a diventare opposizione.
Allora era una questione di sopravvivenza ora di premura. I contenuti del decreto, oltre alla sicurezza contiene norme sull’economia e sulla giustizia, proprio per l’importanza che rivestono, meritavano un’ampia discussione in Parlamento, anche in virtù della sempre dichiarata disponibilità del premier di cercare la collaborazione dell’opposizione. Ma, si sa, verba volant…
L’imposizione del voto di fiducia ha dimostrato che l’attuale governo non ha nessun interesse né di discutere i provvedimenti in Parlamento né di chiedere la collaborazione dell’opposizione, se non per la prossima legge per le elezioni europee per eliminare del tutto i mini partiti della sinistra, complice Veltroni, in questo caso insostituibile spalla.
E’ il solito cliché che si ripete sempre identico: l’opposizione non collabora, è d’impedimento, noi procederemo per la nostra strada, il popolo italiano ci ha largamente votato e suole essere da noi governato...
Sarebbe opportuno, conoscendo il pensiero del leader massimo, certificati i numeri del Parlamento, sostituire le presenze con deleghe e, come in un’assemblea condominiale, approvare le decisioni, senza ripetere, come spesso accade, momenti d’indecenza parlamentare (sputi, litigi, parolacce, spintoni…).
Visto come si è votato e il ruolo che hanno avuto le segreterie dei partiti nel definire l’elenco dei candidati in ordine d’eleggibilità (una parola usata impropriamente in quanto il candidato non è stato eletto, cioè scelto, dal popolo sovrano), sarebbe consequenziale, come in una SpA, affidare l’amministrazione ad un Consiglio che per la verità già c’è, il Consiglio dei ministri, plasmato dal presidente del CdA.
L’opposizione potrebbe dedicarsi, finalmente, a far capire ai cittadini, chi rappresenta, quali obbiettivi si pone, come intende affrontare la crisi economica in atto, quale idea di nuova società guiderà, insomma, la sua azione politica, attualmente, per la verità, piuttosto moscia.
10 luglio 2008
ATTENTI AL GATTO E ALLA VOLPE
Alcuni giorni or sono la neo-presidente della Confindustria Marcegaglia, a conclusione della relazione del Centro Studi confindustriale sulla situazione economica italiana e sulle prospettive di sviluppo, ha rivolto un appello alle forze politiche e alle parti sociali perché privilegino il dialogo perché “la gravità dei nostri problemi ci impone non un clima di contrapposizione e di insulti reciproci, ma di confronto e di dialogo forte, vero, aperto”.
La situazione in cui versa l’economia italiana è grave e con l’inflazione che corre verso il 4%, oggi siamo al 3,6%, le famiglie italiane stanno vivendo il periodo peggiore del nuovo secolo e le industrie con la stagnazione dei consumi ne risentono.
Il problema è grave perché investe la comunità internazionale, ma con un’evidente e sostanziale stonatura: i dati Eurostat ci dicono che nel primo trimestre del 2008 il Pil dell’Italia è cresciuto dello 0,2 contro il 2,1 della zona euro. Ciò significa che in Italia c’è stato qualcosa che non ha funzionato come avrebbe dovuto e che ora con l’”avvento” del deus ex machina” alle finanze tutto ritornerà a posto, purché lo lascino lavorare in serenità senza critiche giornaliere e soprattutto senza premura. Naturalmente è lo stesso invito rivolto dalla Marcegaglia alle forze politiche d’opposizione: non provocate, non scendete in piazza, noi (Confindustria e Deus…) sappiamo quello che dobbiamo fare).
La ricetta del ministro-scrittore, già artefice dell’ultimo miracolo italiano prima dell’attuale crisi petrolifera e contemporaneo del processo intentatoci dall’Europa (per errore, s’intende!), è complicata e di non facile comprensione date le parole “ad alta intensità semantica e politica”.
Quanto ci propone la Confindustria è di parte e rappresenta la solita ricetta del padrone che dice all’operaio di stringere la cinghia e di non parlare d’aumenti salariali per combattere l’inflazione. Sarebbe ancora peggio e poi, secondo i loro studi, dal 1997 al 2007 “il lavoratore italiano medio ha visto accrescere il valore reale della sua busta paga annuale lorda di 1.787 euro. Come dire: i lavoratori hanno avuto fin troppo e noi “non possiamo legare l’aumento dei salari all’inflazione. Questo ci porterebbe alle scale mobili, con tassi d’inflazione fino all’8% che è un dato pazzesco”.
La strada da seguire per la Marcegaglia è, quindi, quella di collegare la crescita retributiva alla produttività a spese dell’occupazione e con un uso spregiudicato della forza lavoro, cioè dell’uomo.
E’ importante rilevare la convergenza tra Confindustria e Tremonti sul tasso d’inflazione programmato (come se la gente può programmare di cosa avrà bisogno tra due anni) all’1,7% che rappresenta l’attuale inflazione depurata del 2% delle variabili estere, quali il prezzo del petrolio.
Se il caro petrolio non determina l’inflazione, cos’è che la determina?
Se alla pompa il costo della benzina aumenta ogni giorno, così come i prodotti derivati, come fa il lavoratore a mantenere lo stesso tenore di vita, perché gli autotrasportatori hanno minacciato lo sciopero e il governo ha stanziato nella manovra finanziaria 116,5 milioni di euro?
C’è in studio una manovra subdola tra la Confindustria e il sindacato: si cerca di stabilire i nuovi indici d’inflazione assumendo come base di definizione quello che viene chiamato “l’indice armonizzato europeo”. I lavoratori italiani per definire l’inflazione reale italiana si avvarranno di un indice che può valere per stati in cui l’inflazione reale è molto bassa se rapportata a quella italiana, ma non per noi, dove ancora oggi l’inflazione reale, quella che si percepisce quando si fa la spesa è più alta di quella del paniere.
Un altro tradimento del sindacato, che ha smarrito il ruolo per cui nacque.
P. S.: il governatore della Banca d’Italia, Draghi all’assemblea dell’ABI ha sostenuto, diversamente dalla Marcegaglia, che gli stipendi sono fermi da 15 anni, mentre il costo del lavoro è aumentato del 30%, individuando in questi due fattori la “stagnazione dell’economia”.
La situazione in cui versa l’economia italiana è grave e con l’inflazione che corre verso il 4%, oggi siamo al 3,6%, le famiglie italiane stanno vivendo il periodo peggiore del nuovo secolo e le industrie con la stagnazione dei consumi ne risentono.
Il problema è grave perché investe la comunità internazionale, ma con un’evidente e sostanziale stonatura: i dati Eurostat ci dicono che nel primo trimestre del 2008 il Pil dell’Italia è cresciuto dello 0,2 contro il 2,1 della zona euro. Ciò significa che in Italia c’è stato qualcosa che non ha funzionato come avrebbe dovuto e che ora con l’”avvento” del deus ex machina” alle finanze tutto ritornerà a posto, purché lo lascino lavorare in serenità senza critiche giornaliere e soprattutto senza premura. Naturalmente è lo stesso invito rivolto dalla Marcegaglia alle forze politiche d’opposizione: non provocate, non scendete in piazza, noi (Confindustria e Deus…) sappiamo quello che dobbiamo fare).
La ricetta del ministro-scrittore, già artefice dell’ultimo miracolo italiano prima dell’attuale crisi petrolifera e contemporaneo del processo intentatoci dall’Europa (per errore, s’intende!), è complicata e di non facile comprensione date le parole “ad alta intensità semantica e politica”.
Quanto ci propone la Confindustria è di parte e rappresenta la solita ricetta del padrone che dice all’operaio di stringere la cinghia e di non parlare d’aumenti salariali per combattere l’inflazione. Sarebbe ancora peggio e poi, secondo i loro studi, dal 1997 al 2007 “il lavoratore italiano medio ha visto accrescere il valore reale della sua busta paga annuale lorda di 1.787 euro. Come dire: i lavoratori hanno avuto fin troppo e noi “non possiamo legare l’aumento dei salari all’inflazione. Questo ci porterebbe alle scale mobili, con tassi d’inflazione fino all’8% che è un dato pazzesco”.
La strada da seguire per la Marcegaglia è, quindi, quella di collegare la crescita retributiva alla produttività a spese dell’occupazione e con un uso spregiudicato della forza lavoro, cioè dell’uomo.
E’ importante rilevare la convergenza tra Confindustria e Tremonti sul tasso d’inflazione programmato (come se la gente può programmare di cosa avrà bisogno tra due anni) all’1,7% che rappresenta l’attuale inflazione depurata del 2% delle variabili estere, quali il prezzo del petrolio.
Se il caro petrolio non determina l’inflazione, cos’è che la determina?
Se alla pompa il costo della benzina aumenta ogni giorno, così come i prodotti derivati, come fa il lavoratore a mantenere lo stesso tenore di vita, perché gli autotrasportatori hanno minacciato lo sciopero e il governo ha stanziato nella manovra finanziaria 116,5 milioni di euro?
C’è in studio una manovra subdola tra la Confindustria e il sindacato: si cerca di stabilire i nuovi indici d’inflazione assumendo come base di definizione quello che viene chiamato “l’indice armonizzato europeo”. I lavoratori italiani per definire l’inflazione reale italiana si avvarranno di un indice che può valere per stati in cui l’inflazione reale è molto bassa se rapportata a quella italiana, ma non per noi, dove ancora oggi l’inflazione reale, quella che si percepisce quando si fa la spesa è più alta di quella del paniere.
Un altro tradimento del sindacato, che ha smarrito il ruolo per cui nacque.
P. S.: il governatore della Banca d’Italia, Draghi all’assemblea dell’ABI ha sostenuto, diversamente dalla Marcegaglia, che gli stipendi sono fermi da 15 anni, mentre il costo del lavoro è aumentato del 30%, individuando in questi due fattori la “stagnazione dell’economia”.
09 luglio 2008
HA SENZ’ALTRO RAGIONE
In questa prima decade di luglio, con un caldo asfissiante che toglie pure la voglia di pensare, i media, proprio tutti, dedicano ampi spazi alle vicende giudiziarie del premier. Così la giustizia arriva in prima pagina e un percorso privilegiato, s’intende più veloce e partisan (sarà poi corretto, dico, il partisan?), permetterà alla legge ad personam (ex lodo Schifani o lodo Alfano poco importa…è sempre “na fitinzia” – dal siciliano volgare: una schifezza), i latinismi abbondano e le picconate al sistema repubblicano pure, alle alte cariche dello Stato di non essere giudicati durante il mandato pubblico, come succede negli altri Paesi europei, e poter, quindi, nel caso del premier, governare con più serenità esplicando nel migliore modo possibile il mandato ricevuto dagli elettori, specie in un momento di difficile contingenza economica.
Il mio amico, il solito scocciatore, mi fa notare che gli altri paesi europei si riducono alla Francia per il presidente della Repubblica e alle monarchie per i re, e che il mandato, ancorché ampio ma di parte, non prevedeva leggi salva-premier.
Aggiunge, comunque, che il processo Mills, il consulente inglese beneficiario di un irrilevante regalo di 600 mila dollari, e le intercettazioni con Saccà, tra l’altro reintegrato in Rai, è solo “fumus”di giudici rossi (o rosella, visto che il rosso politico in Italia è relegato solo nelle manifestazioni) che passano il tempo a perseguitare un galantuomo, mentre numerosi processi giacciono nelle aule dei tribunali di tutta Italia.
Forse il mio amico ha ragione. Ha senz’altro ragione se consideriamo le professioni d’innocenza che giornalmente Berlusconi ci elargisce. Perché non credergli? In fondo, non ha condanne e se qualche volta è intervenuta la decorrenza dei termini…lo ha previsto la legge che, intendiamoci, vale per ogni italiano, specie se ingiustamente accusato.
In verità volevo parlare della confindustria e dei salari, ma il “cappello” introduttivo mi ha preso troppe parole.
Volevo solo dire che la “giustizia- secondo- Berlusconi” continua ad occupare non solo i lavori parlamentari e l’informazione, ma opinionisti e opposizione e che i problemi economici (caro petrolio, caro mutuo, inflazione elevata…) che attanagliano le famiglie sono passati in secondo ordine…
- Ma c’e Tremonti…
- E’ l’ultima provocazione del mio amico che mi costringe a chiudere. Il discorso economico lo riprenderò domani, almeno così spero.
Il mio amico, il solito scocciatore, mi fa notare che gli altri paesi europei si riducono alla Francia per il presidente della Repubblica e alle monarchie per i re, e che il mandato, ancorché ampio ma di parte, non prevedeva leggi salva-premier.
Aggiunge, comunque, che il processo Mills, il consulente inglese beneficiario di un irrilevante regalo di 600 mila dollari, e le intercettazioni con Saccà, tra l’altro reintegrato in Rai, è solo “fumus”di giudici rossi (o rosella, visto che il rosso politico in Italia è relegato solo nelle manifestazioni) che passano il tempo a perseguitare un galantuomo, mentre numerosi processi giacciono nelle aule dei tribunali di tutta Italia.
Forse il mio amico ha ragione. Ha senz’altro ragione se consideriamo le professioni d’innocenza che giornalmente Berlusconi ci elargisce. Perché non credergli? In fondo, non ha condanne e se qualche volta è intervenuta la decorrenza dei termini…lo ha previsto la legge che, intendiamoci, vale per ogni italiano, specie se ingiustamente accusato.
In verità volevo parlare della confindustria e dei salari, ma il “cappello” introduttivo mi ha preso troppe parole.
Volevo solo dire che la “giustizia- secondo- Berlusconi” continua ad occupare non solo i lavori parlamentari e l’informazione, ma opinionisti e opposizione e che i problemi economici (caro petrolio, caro mutuo, inflazione elevata…) che attanagliano le famiglie sono passati in secondo ordine…
- Ma c’e Tremonti…
- E’ l’ultima provocazione del mio amico che mi costringe a chiudere. Il discorso economico lo riprenderò domani, almeno così spero.
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