“Il governo va avanti senza l’UDC”. Questo ha stabilito il vertice delle 2B. Gli italiani hanno di che essere soddisfatti. A dicembre non andranno a votare. Potranno aprire i regali sotto l’albero, brindare all’anno nuovo e ringraziare il duo Berlusconi-Bossi.
L’estate 2010 sarà ricordata come la farsa (commedia?) politica all’italiana che nasce con presupposti seri e di principio e si conclude, attraverso un percorso ambiguo, con una risata generale, di liberazione o d’ironica sopportazione, l’ennesima.
Si è partiti da due fatti eclatanti, la nascita del gruppo dei finiani in parlamento e il voto sul sottosegretario Caliendo che ha sancito il disfacimento della maggioranza, e si arrivati alla truffa di Villa Campari. Non che la “truffa” sia un episodio meno eclatante, ma ormai gli italiani si sono abituati alla tattica di due passi avanti e tre indietro, alla politica del dimenticare quello che è stato detto e dire il contrario … tanto hanno la memoria corta e, poi, sono ancora in vacanza … almeno quelli che possono.
Le prime pagine di tutti i quotidiani e le aperture dei telegiornali (meno male che i talk show sono chiusi tuttora per ferie), non hanno fatto che raccontare lo scontro tra i finiani e il Pdl con esibizioni muscolari degni di un incontro di lotta greco-romana: il premier, i suoi portavoce e i sodali a dire che al massimo a dicembre si voterà, anche se bisognerà operare qualche strappo alla Costituzione, che il popolo ha indicato Berlusconi premier e non può esserci altro governo se non l’attuale e che i traditori farebbero bene a rientrare nei ranghi per evitare di non essere più eletti.
Bossi e la Lega avevano coniato lo slogan “al voto subito”.
Berlusconi a un certo punto comincia a frenare sul voto, propone, prima i cinque punti su cui porre la fiducia e poi un possibile abbraccio con Casini, che sostituirebbe Fini, urtando la suscettibilità di Bossi che dichiara che la Lega non condivide e che tutto sarà deciso nel prossimo vertice delle 2B.
Ancora una volta esce il topolino: niente voto subito, il governo va avanti, navigando a vista, mentre il messo di Bossi, onorevole Calderoni, è incaricato di fare opera di convincimento presso i finiani.
Il cambio di strategia è dovuto al fatto che i sondaggi non danno la certezza della vittoria, mentre Casini e alcuni suoi uomini potrebbero correre al momento opportuno in aiuto del governo.
Se non è una truffa, è una presa in giro degli elettori, che sono considerati merce di cui disporre al momento opportuno, senza capacità critica né orgoglio.
Voglio sperare che i cittadini si ricordino di questa estate che ha messo in vetrina le contraddizioni della maggioranza, l’inconsistenza politica del suo leader, più bravo a imporre le leggi ad personam o ad aziendam che a risolvere i reali problemi del Paese, il continuo tentativo di mettere il bavaglio all’informazione e di perseguitare quanti si ribellino all’imperatore, interprete unico della legge e della democrazia.
26 agosto 2010
25 agosto 2010
CUL DE SAC BIPOLARE
Noi italiani, si sa, cavilliamo. Il sofisma furbesco, l’artificio capzioso, l’arabesco intellettuale, sono il nostro vero sport nazionale ed in questo, ammettiamolo, non siamo secondi a nessuno. E’dunque assolutamente naturale trascorrere le nostre ferie d’agosto a disquisire sottilmente sulle ragioni di chi vorrebbe ricostruire una maggioranza di governo senza andare alle urne, e su quelle di chi invece non concepisce altre soluzioni che il ricorso al voto. E mentre si dibatte amabilmente, da fini giureconsulti degni eredi di Azzecagarbugli, sul fatto che tecnicamente hanno ragione coloro che vogliono il ribaltone mentre costituzionalmente hanno ragione coloro che vogliono il voto anticipato – e già questa evidente discrasia tra dettato costituzionale e sistema bipolare dovrebbe farci riflettere, se avessimo ancora una testa salda sulle spalle – si continua a guardare il dito invece che la luna che quello indica.
Perché la domanda è una sola: ma che cosa risolverebbe ora un nuovo turno elettorale?! E d’altro canto: come accidenti si esce da questo folle cul de sac bipolare che ci inchioda alla nostra stessa impotenza politica, civile e sociale?!
Le ragioni di chi vuole il voto sono chiare e niente affatto meritorie: Berlusconi lo considera una mera prova di forza con cui schiacciare definitivamente ogni velleità leaderistica di Fini; la Lega, che stante gli ultimi eclatanti risultati elettorali non ha alcun bisogno di una prova muscolare avendola già ampiamente fornita, vede però il voto come una concreta possibilità di mettere la freccia e di iniziare il sorpasso a destra. Va da sé che né l’uno né l’altra hanno la buona fede di ammettere che con questa legge elettorale illiberale che ha sancito lo strapotere della partitocrazia non ci sarebbe possibilità alcuna di cambiamento offerta agli elettori che dunque andando a votare perderebbero solo – e diciamolo senza ipocrisie, per la miseria – il loro tempo. E questa è la risposta alla prima domanda che ci siamo posti: un nuovo turno elettorale non risolverebbe nulla rispetto alla nostra situazione politica, servirebbe solo ad un regolamento di conti interno al centrodestra che francamente ci sembra del tutto ingiusto far pagare alla spesa pubblica già gravata oltre ogni possibilità. Berlusconi, Fini e Bossi si vedano dietro il Convento delle Carmelitane scalze, come si usava in tempi meno ipocriti di questi, e si sfidino a duello: il risultato sarà chiaro, la spesa del tutto contenuta e coperta peraltro dall’assicurazione sanitaria dei parlamentari.
Intanto, il Pd, che ha più paura del voto che del fantasma di Stalin, si affanna a vociare che con questa legge elettorale “scandalosa” – parole di Rosy Bindi – non si può votare: o bella, eppure questa legge fu voluta anche da loro, con l’entusiastico sostegno di Massimo D’Alema, ci avrà mica preso per bischeri smemorati il partito che non c’è?! In tutta la vicenda dell’attuale crisi della maggioranza abbiamo sentito Bersani ripetere fino allo sfinimento una sola frase: “Bisogna che Berlusconi se ne vada” che è un po’ come il “delenda Carthago est” di Catone il Censore, una via di mezzo fra una fissazione ossessiva-compulsiva e la patente incapacità di riconnettere il neurone ancora in circolo e partorire uno straccio, anche solo un brandello, di idea politica. Sorvoliamo sulla Bella dalle lunghe ciglia, ovvero Casini, che flirta con tutti ma poi non se la prende nessuno, su Bello Quaglione Rutelli che dice poco e mai nulla di minimamente significativo, sugli arrembaggi spericolati alla lingua italiana di Di Pietro, che aspira alle Idi di Marzo nel ruolo di Bruto ma sembra più il Commissario Basettoni alle prese con la Banda Bassotti, ed il quadro è completo. Allora, la risposta alla seconda domanda, ovvero come si esce da questo devastante cul de sac bipolare è: stando così le cose non se ne esce, e di questo dobbiamo ringraziare tutti quei signori sopra citati che hanno costruito un meccanismo chiuso, partitocratico, illiberale di cui oggi viviamo le conseguenze ultime e degenerate, di cui siamo letteralmente prigionieri, privi di ogni e qualsiasi strumento democratico per liberarcene, schiavi di una oligarchia fondata su lobbies economiche e di potere che non recede di un millimetro dalle proprie posizioni, consegnati mani e piedi ad una schiera di ignoranti asserviti che occupano le istituzioni per il solo merito di essere muti e consenzienti. Questa è la vera cancrena italiana che, ci dispiace per Bersani, non è causata da Berlusconi, perché lui e tutti gli altri, a destra come a sinistra, sono invece la conseguenza di un sistema che ha preso il via con Mani Pulite e si è poi insediato sulla partitocrazia assoluta. Sarebbe dunque oltremodo commendevole che i responsabili di tanto disastro facessero pubblica ammenda delle loro colpe, si assumessero la responsabilità del disastro politico, istituzionale ed amministrativo in cui ci hanno piombati e si decidessero ad avviare una riforma seria, completa, profonda e basilare di un intero sistema che non funziona più neanche come cane da guardia della conservazione del potere. Ma poiché non lo faranno, prepariamoci alla stagione della Lega: certo, se un tempo dicevamo di non voler morire democristiani, la prospettiva di morire leghisti ci piace ancora meno – ma se si continua a guardare il dito invece che la luna, prepariamoci ad indossare la camicia verde. Il presunto tiranno cadrà, ma noi ci faremo più male di lui.
Chiara Boriosi 25 Agosto 2010
Commento inviato il 25 Agosto 2010
Non entro in merito all’interpretazione, che possiamo o no condividere, della farsa politica estiva, frutto forse di un deficit “politico-istituzionale” degli interpreti, ma sicuramente chiara dimostrazione del pensiero corrente: il faccio tutto mi del cavaliere di Arcore (volevo scrivere di Cervantes, ma l’abisso è incolmabile), spalleggiato da cortigiani e sodali e il tirare a campare di Bersani per il quale è meglio gestire il poco o tanto che ancora ha il PD che perdere le lezioni, specialmente se le dovessero affrontare con questo spirito e con questi uomini di vecchio apparato., senza uno “straccio” di programma e di proposta alternativa.
Non condivido l’affermazione che “la vera cancrena” non è causata da Berlusconi che, poveretto, si è trovato a gestire una situazione causata da un sistema che “ha preso il via con Mani Pulite” e ha dato vita alla “partitocrazia assoluta”.
Non sono un difensore di quel periodo. Ma sarebbe giusto riconoscere che, pur nella sua azione devastante verso una politica corrotta, ha dato l’illusione ai cittadini che contavano qualcosa (ma siccome al fondo non c’è fine … ergo … l’assolutismo partitocratico stupendamente interpretato da Berlusconi circondato da una classe politica di infimo livello). Sono di quel periodo, se non erro, un provvedimento sull’immunità parlamentare e un referendum sul finanziamento pubblico dei partiti. Cosa è rimasto di questi provvedimenti? O, meglio, come sono stati superati quei provvedimenti?
Se ci troviamo in questa situazione da basso impero, la colpa non può essere, in ciò concordo, solo di Berlusconi … e non solo del PD o di Casini o di Di Pietro, ma di una politica priva del fondamento Etico e di una classe di intellettuali che ha lasciato che la politica la sovrastasse.
“Sarebbe commendevole che i responsabile di tanto disastro (penso siano i politici o no?) facessero pubblica ammenda … “.
Signora Boriosi non è che sta facendo come il cane che cerca di mordersi la coda e gira su se stesso? Ma le pare logico che ha combinato il pasticcio si accusi, quando potrà indicare altri? Le sembra possibile che i segretari di partito oggi cambino una legge porcata che li può riportare al potere ?
Le risposte lei le conosce bene visto che conclude con un rassegnato “prepariamoci ad indossare la camicia verde”.
A lei e ai tanti intellettuali o politici nascosti che conoscono bene il male e la causa di esso, non può bastare mettere il dito nella piaga e poi tirarlo via. Una terapia bisogna indicarla e parteciparla.
Non me ne voglia, ma è arrivato il tempo dell’agire, parlando di economia, d’informazione, di lavoro, di scuola, di giustizia uguale per tutti, di legge uguale per tutti, di conflitti d’interesse, di corruzione …
Ne conviene?
Distintamente
Cologno 25/08/2010
Noi italiani, si sa, cavilliamo. Il sofisma furbesco, l’artificio capzioso, l’arabesco intellettuale, sono il nostro vero sport nazionale ed in questo, ammettiamolo, non siamo secondi a nessuno. E’dunque assolutamente naturale trascorrere le nostre ferie d’agosto a disquisire sottilmente sulle ragioni di chi vorrebbe ricostruire una maggioranza di governo senza andare alle urne, e su quelle di chi invece non concepisce altre soluzioni che il ricorso al voto. E mentre si dibatte amabilmente, da fini giureconsulti degni eredi di Azzecagarbugli, sul fatto che tecnicamente hanno ragione coloro che vogliono il ribaltone mentre costituzionalmente hanno ragione coloro che vogliono il voto anticipato – e già questa evidente discrasia tra dettato costituzionale e sistema bipolare dovrebbe farci riflettere, se avessimo ancora una testa salda sulle spalle – si continua a guardare il dito invece che la luna che quello indica.
Perché la domanda è una sola: ma che cosa risolverebbe ora un nuovo turno elettorale?! E d’altro canto: come accidenti si esce da questo folle cul de sac bipolare che ci inchioda alla nostra stessa impotenza politica, civile e sociale?!
Le ragioni di chi vuole il voto sono chiare e niente affatto meritorie: Berlusconi lo considera una mera prova di forza con cui schiacciare definitivamente ogni velleità leaderistica di Fini; la Lega, che stante gli ultimi eclatanti risultati elettorali non ha alcun bisogno di una prova muscolare avendola già ampiamente fornita, vede però il voto come una concreta possibilità di mettere la freccia e di iniziare il sorpasso a destra. Va da sé che né l’uno né l’altra hanno la buona fede di ammettere che con questa legge elettorale illiberale che ha sancito lo strapotere della partitocrazia non ci sarebbe possibilità alcuna di cambiamento offerta agli elettori che dunque andando a votare perderebbero solo – e diciamolo senza ipocrisie, per la miseria – il loro tempo. E questa è la risposta alla prima domanda che ci siamo posti: un nuovo turno elettorale non risolverebbe nulla rispetto alla nostra situazione politica, servirebbe solo ad un regolamento di conti interno al centrodestra che francamente ci sembra del tutto ingiusto far pagare alla spesa pubblica già gravata oltre ogni possibilità. Berlusconi, Fini e Bossi si vedano dietro il Convento delle Carmelitane scalze, come si usava in tempi meno ipocriti di questi, e si sfidino a duello: il risultato sarà chiaro, la spesa del tutto contenuta e coperta peraltro dall’assicurazione sanitaria dei parlamentari.
Intanto, il Pd, che ha più paura del voto che del fantasma di Stalin, si affanna a vociare che con questa legge elettorale “scandalosa” – parole di Rosy Bindi – non si può votare: o bella, eppure questa legge fu voluta anche da loro, con l’entusiastico sostegno di Massimo D’Alema, ci avrà mica preso per bischeri smemorati il partito che non c’è?! In tutta la vicenda dell’attuale crisi della maggioranza abbiamo sentito Bersani ripetere fino allo sfinimento una sola frase: “Bisogna che Berlusconi se ne vada” che è un po’ come il “delenda Carthago est” di Catone il Censore, una via di mezzo fra una fissazione ossessiva-compulsiva e la patente incapacità di riconnettere il neurone ancora in circolo e partorire uno straccio, anche solo un brandello, di idea politica. Sorvoliamo sulla Bella dalle lunghe ciglia, ovvero Casini, che flirta con tutti ma poi non se la prende nessuno, su Bello Quaglione Rutelli che dice poco e mai nulla di minimamente significativo, sugli arrembaggi spericolati alla lingua italiana di Di Pietro, che aspira alle Idi di Marzo nel ruolo di Bruto ma sembra più il Commissario Basettoni alle prese con la Banda Bassotti, ed il quadro è completo. Allora, la risposta alla seconda domanda, ovvero come si esce da questo devastante cul de sac bipolare è: stando così le cose non se ne esce, e di questo dobbiamo ringraziare tutti quei signori sopra citati che hanno costruito un meccanismo chiuso, partitocratico, illiberale di cui oggi viviamo le conseguenze ultime e degenerate, di cui siamo letteralmente prigionieri, privi di ogni e qualsiasi strumento democratico per liberarcene, schiavi di una oligarchia fondata su lobbies economiche e di potere che non recede di un millimetro dalle proprie posizioni, consegnati mani e piedi ad una schiera di ignoranti asserviti che occupano le istituzioni per il solo merito di essere muti e consenzienti. Questa è la vera cancrena italiana che, ci dispiace per Bersani, non è causata da Berlusconi, perché lui e tutti gli altri, a destra come a sinistra, sono invece la conseguenza di un sistema che ha preso il via con Mani Pulite e si è poi insediato sulla partitocrazia assoluta. Sarebbe dunque oltremodo commendevole che i responsabili di tanto disastro facessero pubblica ammenda delle loro colpe, si assumessero la responsabilità del disastro politico, istituzionale ed amministrativo in cui ci hanno piombati e si decidessero ad avviare una riforma seria, completa, profonda e basilare di un intero sistema che non funziona più neanche come cane da guardia della conservazione del potere. Ma poiché non lo faranno, prepariamoci alla stagione della Lega: certo, se un tempo dicevamo di non voler morire democristiani, la prospettiva di morire leghisti ci piace ancora meno – ma se si continua a guardare il dito invece che la luna, prepariamoci ad indossare la camicia verde. Il presunto tiranno cadrà, ma noi ci faremo più male di lui.
Chiara Boriosi 25 Agosto 2010
Commento inviato il 25 Agosto 2010
Non entro in merito all’interpretazione, che possiamo o no condividere, della farsa politica estiva, frutto forse di un deficit “politico-istituzionale” degli interpreti, ma sicuramente chiara dimostrazione del pensiero corrente: il faccio tutto mi del cavaliere di Arcore (volevo scrivere di Cervantes, ma l’abisso è incolmabile), spalleggiato da cortigiani e sodali e il tirare a campare di Bersani per il quale è meglio gestire il poco o tanto che ancora ha il PD che perdere le lezioni, specialmente se le dovessero affrontare con questo spirito e con questi uomini di vecchio apparato., senza uno “straccio” di programma e di proposta alternativa.
Non condivido l’affermazione che “la vera cancrena” non è causata da Berlusconi che, poveretto, si è trovato a gestire una situazione causata da un sistema che “ha preso il via con Mani Pulite” e ha dato vita alla “partitocrazia assoluta”.
Non sono un difensore di quel periodo. Ma sarebbe giusto riconoscere che, pur nella sua azione devastante verso una politica corrotta, ha dato l’illusione ai cittadini che contavano qualcosa (ma siccome al fondo non c’è fine … ergo … l’assolutismo partitocratico stupendamente interpretato da Berlusconi circondato da una classe politica di infimo livello). Sono di quel periodo, se non erro, un provvedimento sull’immunità parlamentare e un referendum sul finanziamento pubblico dei partiti. Cosa è rimasto di questi provvedimenti? O, meglio, come sono stati superati quei provvedimenti?
Se ci troviamo in questa situazione da basso impero, la colpa non può essere, in ciò concordo, solo di Berlusconi … e non solo del PD o di Casini o di Di Pietro, ma di una politica priva del fondamento Etico e di una classe di intellettuali che ha lasciato che la politica la sovrastasse.
“Sarebbe commendevole che i responsabile di tanto disastro (penso siano i politici o no?) facessero pubblica ammenda … “.
Signora Boriosi non è che sta facendo come il cane che cerca di mordersi la coda e gira su se stesso? Ma le pare logico che ha combinato il pasticcio si accusi, quando potrà indicare altri? Le sembra possibile che i segretari di partito oggi cambino una legge porcata che li può riportare al potere ?
Le risposte lei le conosce bene visto che conclude con un rassegnato “prepariamoci ad indossare la camicia verde”.
A lei e ai tanti intellettuali o politici nascosti che conoscono bene il male e la causa di esso, non può bastare mettere il dito nella piaga e poi tirarlo via. Una terapia bisogna indicarla e parteciparla.
Non me ne voglia, ma è arrivato il tempo dell’agire, parlando di economia, d’informazione, di lavoro, di scuola, di giustizia uguale per tutti, di legge uguale per tutti, di conflitti d’interesse, di corruzione …
Ne conviene?
Distintamente
Cologno 25/08/2010
23 agosto 2010
UN RITO BARBARO E SANGUINARIO
Guardia Sanframondi è un paesino della provincia di Benevento che è assurto agli onori della cronaca per la processione dei battenti, un rito che si ripete ogni sette anni.
1200 “fedeli” si sono battuti a sangue con la “spugna” strumento penitenziale provvisto di spilli durante la processione dell’Assunta.
Incappucciati e coperti da una bianca tunica, in segno di penitenza, hanno martoriato il corpo per tutta la durata della processione, macchiando di sangue le bianche tuniche: uno spettacolo tribale, che mette in evidenza ancora una volta il ruolo della superstizione.
Non capisco fin dove arriva la fede e da quando inizia lo spettacolo. Nell’uno e nell’altro caso, i settennali, così sono chiamate tali manifestazioni, sono molto cruenti e molto diseducativi, poiché, volenti o nolenti, coinvolgono generazioni di fanciulli nell’apologia del fato e di un modello penitenziale che dovrebbe essere sepolto ormai nella notte del tempo.
Il parroco del paese e il sindaco affermano che si tratta di una manifestazione “religiosa” e intanto l’antropologo Marino Niola è stato nominato “ambasciatore di Guardia Sanframondi nel mondo” e quest’anno è stata presente anche la troupe televisiva Al Jazeera mentre 150 mila spettatori, niente a che vedere con i penitenti, hanno fatto ala alla processione.
È, quindi, difficile pensare a un avvenimento religioso così spettacolare col sangue, quasi si provasse piacere a martoriare il povero corpo davanti a migliaia di spettatori.
La religione come spettacolo oltre alla religione come business.
E il nostro antropologo si compiace e parla di “un rito fortemente glocal” e afferma che “un paese intero che fa penitenza è davvero inusuale”.
Invece che compiacersi, certo ne hanno ben donde, lo studioso, il sindaco e il parroco, dovrebbero ognuno per la propria parte buttare acqua su un rito macabro e superstizioso, che ripropone sconvolgenti rappresentazioni che si associano alla “fede” che è un’altra cosa e non ha bisogno che sia spettacolarizzato. Sta scritto in Matteo (6,6): “Tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera e chiudi la porta. Poi prega Dio, che è in segreto”.
Se proprio vogliono promuovere il turismo, anche religioso, possono sostituire lo strumento penitenziale con uno innocuo. Non penso che Dio per perdonare ha bisogno del sangue!
1200 “fedeli” si sono battuti a sangue con la “spugna” strumento penitenziale provvisto di spilli durante la processione dell’Assunta.
Incappucciati e coperti da una bianca tunica, in segno di penitenza, hanno martoriato il corpo per tutta la durata della processione, macchiando di sangue le bianche tuniche: uno spettacolo tribale, che mette in evidenza ancora una volta il ruolo della superstizione.
Non capisco fin dove arriva la fede e da quando inizia lo spettacolo. Nell’uno e nell’altro caso, i settennali, così sono chiamate tali manifestazioni, sono molto cruenti e molto diseducativi, poiché, volenti o nolenti, coinvolgono generazioni di fanciulli nell’apologia del fato e di un modello penitenziale che dovrebbe essere sepolto ormai nella notte del tempo.
Il parroco del paese e il sindaco affermano che si tratta di una manifestazione “religiosa” e intanto l’antropologo Marino Niola è stato nominato “ambasciatore di Guardia Sanframondi nel mondo” e quest’anno è stata presente anche la troupe televisiva Al Jazeera mentre 150 mila spettatori, niente a che vedere con i penitenti, hanno fatto ala alla processione.
È, quindi, difficile pensare a un avvenimento religioso così spettacolare col sangue, quasi si provasse piacere a martoriare il povero corpo davanti a migliaia di spettatori.
La religione come spettacolo oltre alla religione come business.
E il nostro antropologo si compiace e parla di “un rito fortemente glocal” e afferma che “un paese intero che fa penitenza è davvero inusuale”.
Invece che compiacersi, certo ne hanno ben donde, lo studioso, il sindaco e il parroco, dovrebbero ognuno per la propria parte buttare acqua su un rito macabro e superstizioso, che ripropone sconvolgenti rappresentazioni che si associano alla “fede” che è un’altra cosa e non ha bisogno che sia spettacolarizzato. Sta scritto in Matteo (6,6): “Tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera e chiudi la porta. Poi prega Dio, che è in segreto”.
Se proprio vogliono promuovere il turismo, anche religioso, possono sostituire lo strumento penitenziale con uno innocuo. Non penso che Dio per perdonare ha bisogno del sangue!
21 agosto 2010
Legge ad aziendam
Dopo le leggi ad personam ecco (ma c’era dubbio?) ecco la legge ad aziendam, che regala, togliendole dalle casse dello Stato, ben 167, 4 milioni di euro, escluse imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni, alla Mondadori, azienda di famiglia del Presidente del Consiglio. Non voglio nemmeno parlare dell’evidente conflitto d’interesse, né di unna maggioranza parlamentare asservita, però sono disgustato.
Io potrei non sapere cosa produce la Mondadori”, né conoscerne la proprietà, ma so soltanto che l’attuale governo Berlusconi ha approvato l’ennesima legge salva evasori (si pensava che dopo lo scudo di sarebbero vergognati … ma la faccia di tolla non arrossisce mai!), so che con poco più di 8,6 milioni, pari al 5% di quanto dovuto al fisco l’azienda ha lucrato, non ha rischiato niente, molto di più dei 173 milioni dovuti.
Certo, in un momento di crisi, appare giusto aiutare le aziende in sofferenza, ma che almeno abbiano una conduzione aziendale virtuosa e siano in regola col fisco.
Ma la proprietà, anche per i suoi interessi economici diversificati, produce ville e yacht per figli e nipoti. Così, mentre il Paese è alle prese con la crisi più grave del dopoguerra, mentre molte piccole e medie aziende chiudono, lasciando i dipendenti in mezzo ad una strada, mentre le tasse aumentano e il fisco fa la voce grossa con i contribuenti da busta paga, quando c’è, il governo si preoccupa del pacco dono alla Mondadori. Il governo del fare … fa, non gli interessi dei cittadini, ma della famiglia del Presidente del Consiglio. E lo può fare perché l’Italia è un Paese virtuoso la cui economia va a gonfie vele e Tremonti … meno male che Dio ce ne ha fatto dono.
La videoinformazione, quella che entra in tutte le case, e i giornali di famiglia all’unisono ci presentano un Paese da favola, senza problemi, con le autostrade intasate, da bollino nero, e i luoghi di villeggiatura stracolmi. Le aziende chiudono? È cattiva informazione! I disoccupati o i cassaintegrati aumentano? Ma dove, forse nei Paesi vicini!
I disoccupati, i giovani in cerca di primo impiego, i pensionati, per l’informazione asservita non esistono. Sono degli ectoplasmi,meglio non parlarne, specie ad Agosto. È più redditzio parlare di Fini e dei finiani, delle elezioni o del governo tecnico … tanto tra qualche giorno inizia il campionato di calcio, inizia il tifo, che volete importi ai … telespettatori della Mondadori, di Verdini della P3 o dei ministri e sottosegretari sotto inchiesta.
Viva Berlusconi e il suo governo, viva l’Italia dell’ottimismo senza base, viva l’Italia degli affaristi e dei furbetti, degli intrallazzatori e dei piduisti, viva lItalia degli evasori e dei corrotti, viva l’Italia degli imprenditori senza dignità e senza soldi, dei giornalisti prezzolati e degli organi di controllo asserviti, viva … viva … viva … viva …
È cosa giusta e buona che i lavoratori paghino le tasse e che i nuovi cittadini ne godano!
Meno male che Silvio c’è!
P.S.: mi sembra molto interessante la proposta di Vito Mancuso. Se fossi uno degli intellettuali citati mi schiererei al suo fianco, in una campagna di denuncia su quanto sta accadendo nel nostro Paese, che mortifica il diritto e la carta costituzionale.
Io, autore Mondadori
e lo scandalo "ad aziendam"
di VITO MANCUSO 21 agosto 2010 Repubblica.it
Da quando ho letto l'articolo di Massimo Giannini 1 giovedì scorso 19 agosto non ho potuto smettere di pensarci. Ho provato a fare altro e a concentrarmi sul mio lavoro, ma dato che in questi giorni esso consiste proprio nella stesura del nuovo libro che a breve dovrei consegnare alla Mondadori, mi è sempre risultato impossibile distogliere dalla mente i pensieri abbastanza cupi che vi si affacciavano. La domanda era sempre quella: come posso adesso, se quello che scrive Giannini corrisponde al vero, continuare a pubblicare con la Mondadori e rimanere a posto con la mia coscienza? Come posso fondare il mio pensiero sul bene e sulla giustizia, e poi contribuire al programma editoriale di un'azienda che a quanto pare, godendo di favori parlamentari ed extra-parlamentari, pagherebbe al fisco solo una minima parte (8,6 milioni versati) di un antico ed enorme debito (350 milioni dovuti)? Come posso fare dell'etica la stella polare della mia teologia e poi pubblicare i miei libri con un'azienda che non solo dell'etica ma anche del diritto mostrerebbe, in questo caso, una concezione alquanto singolare?
Io sono legato da tempo alla Mondadori, era il 1997 quando vi entrai come consulente editoriale della saggistica fondandovi una collana di religione e spiritualità, poi nel 2002 ebbi l'onore di diventarne autore quando il comitato editoriale accettò il mio saggio sull'handicap come problema teologico, onore ripetuto nel 2005 e nel 2009 con altri due libri.
Conosco bene i cinque piani di palazzo Niemeyer a Segrate, gli uffici open-space, i corridoi interminabili dove si incontra chiunque (scrittori, politici, cantanti, calciatori, scienziati, matematici, preti, comici...), la mensa dove per parlare con il vicino spesso bisogna gridare, il ristorantino vip, lo spaccio dove si comprano i libri a metà prezzo, le redazioni dei settimanali e dei femminili, l'auditorium dove presentavo ai venditori i libri in uscita e di recente il libro che sto scrivendo. So dove si trovano le macchinette del caffè, luogo di ritrovi e di battute, e di gara con gli amici a chi mette per primo la monetina. Ecco, gli amici. Impossibile per me parlare della Mondadori e non rivedere i loro volti e non provare ancora una volta ammirazione e stima per la loro professionalità. Perché questo anzitutto la Mondadori è: una grande azienda di brillanti professionisti. Del resto a parlare sono i titoli e i fatturati, sono i lettori italiani che continuano a premiare con le loro scelte il lavoro di un'editrice che va avanti dal 1907. Un lavoro in grado di vincere anche in qualità, basti pensare alla collezione dei Meridiani, ai Meridiani dello Spirito, ai classici greci e latini della Fondazione Valla. E se uno avesse dei dubbi, prenda in mano il catalogo degli Oscar e di sicuro gli passeranno, perché si ritroverà tra le mani una vera e propria enciclopedia della scienza editoriale in compendio.
Per questo il mio dubbio, dopo l'articolo di Giannini, è pesante. Leggendo ho appreso che non si tratta più di accettare una proprietà che può piacere oppure no ma che non ha nulla a che fare con le scelte editoriali, cioè con l'azienda nella sua essenza. Stavolta è la Mondadori in quanto tale a essere coinvolta, non solo il suo proprietario per i soliti motivi che non hanno nulla a che fare con l'editoria libraria. Quindi stavolta come autore non posso più dire a me stesso che l'editrice in quanto tale non c'entra nulla con gli affari politici e giudiziari del suo proprietario, perché ora l'editrice c'entra, eccome se c'entra, se è vero che di 350 milioni dovuti al fisco ne viene a pagare solo 8,6 dopo quasi vent'anni, e senza neppure un euro di interesse per il ritardo, interessi che invece a un normale cittadino nessuno defalca se non paga nei tempi dovuti il bollo auto, il canone tv o uno degli altri bollettini a tutti noti.
Eccomi quindi qui con la coscienza in tempesta: da un lato il poter far parte di un programma editoriale di prima qualità venendo anche ben retribuito, dall'altro il non voler avere nulla a che fare con chi speculerebbe sugli appoggi politici di cui gode. Da un lato un debito di riconoscenza per l'editrice che ha avuto fiducia in me quando ero sconosciuto, dall'altro il dovere civico di contrastare un'inedita legge ad aziendam che si sommerebbe alle 36 leggi ad personam già confezionate per l'attuale primo ministro (riprendo il numero delle leggi dall'articolo di Giannini e mi scuso per il latino ipermaccheronico "ad aziendam", ma ho preso atto che oggi si dice così). A tutto questo si aggiunge lo stupore per il fatto che il Corriere della Sera, gruppo Rizzoli principale concorrente Mondadori, finora abbia dedicato una notizia di poche righe alla questione: come mai?
Nella mia incertezza ho deciso di scrivere questo articolo. Spero infatti che a seguito di esso qualcuno tra i dirigenti della Mondadori possa spiegare pubblicamente cosa c'è che non va nell'articolo di Giannini, perché e in che cosa esagera e non corrisponde a verità. Io sarei il primo a gioirne. Spero inoltre che anche altri autori Mondadori che scrivono su questo giornale possano dire come la pensano e cosa rispondono alla loro coscienza. Sto parlando di firme come Corrado Augias, Pietro Citati, Federico Rampini, Roberto Saviano, Nadia Fusini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano... Se poi allarghiamo il tiro alle editrici controllate interamente dalla Mondadori (il che, in questo caso, mi pare oggettivamente doveroso) arriviamo all'Einaudi e a nomi come Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebelsky, Adriano Prosperi... Sono tutte personalità di grande spessore e per questo sarei loro riconoscente se contribuissero a risolvere qualcuno dei dubbi sollevati da questa inedita legge ad aziendam nella coscienza di un autore del Gruppo Mondadori
Mondadori salvata dal Fisco
scandalo "ad aziendam" per il Cavaliere
La somma dovuta dall'azienda editoriale: 173 milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni. Una norma che si somma ai 36 provvedimenti "ad personam" fatti licenziare alle Camere dal premier. Segrate è difesa al meglio: i suoi interessi li cura lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel '91 non ancora ministro. Marina Berlusconi mette da parte 8,6 milioni, in attesa delle integrazioni al decreto. Che puntualmente arrivano
di MASSIMO GIANNINI 19 agosto 2010
Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo. Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente - doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come prima.
Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico. Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso. Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier, il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.
Il prologo: paura a Segrate
La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado. È assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008 l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione. Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni. Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.
Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato. Ma normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico, si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà l'obiettivo.
Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia"
Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13 aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce, quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti tributarie". Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono riservato" che serve alla Mondadori.
L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.
Il secondo tentativo: la Finanziaria
Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano. È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.
Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge, e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco. Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.
Il terzo tentativo: il "decreto incentivi"
Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado, senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo, sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione Finanziaria.
Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30 giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40" sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo "Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale: "L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli regolare "quietanza".
L'epilogo: una nazione "ad personam"?
Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).
È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?
m.giannini@repubblica. It
Io potrei non sapere cosa produce la Mondadori”, né conoscerne la proprietà, ma so soltanto che l’attuale governo Berlusconi ha approvato l’ennesima legge salva evasori (si pensava che dopo lo scudo di sarebbero vergognati … ma la faccia di tolla non arrossisce mai!), so che con poco più di 8,6 milioni, pari al 5% di quanto dovuto al fisco l’azienda ha lucrato, non ha rischiato niente, molto di più dei 173 milioni dovuti.
Certo, in un momento di crisi, appare giusto aiutare le aziende in sofferenza, ma che almeno abbiano una conduzione aziendale virtuosa e siano in regola col fisco.
Ma la proprietà, anche per i suoi interessi economici diversificati, produce ville e yacht per figli e nipoti. Così, mentre il Paese è alle prese con la crisi più grave del dopoguerra, mentre molte piccole e medie aziende chiudono, lasciando i dipendenti in mezzo ad una strada, mentre le tasse aumentano e il fisco fa la voce grossa con i contribuenti da busta paga, quando c’è, il governo si preoccupa del pacco dono alla Mondadori. Il governo del fare … fa, non gli interessi dei cittadini, ma della famiglia del Presidente del Consiglio. E lo può fare perché l’Italia è un Paese virtuoso la cui economia va a gonfie vele e Tremonti … meno male che Dio ce ne ha fatto dono.
La videoinformazione, quella che entra in tutte le case, e i giornali di famiglia all’unisono ci presentano un Paese da favola, senza problemi, con le autostrade intasate, da bollino nero, e i luoghi di villeggiatura stracolmi. Le aziende chiudono? È cattiva informazione! I disoccupati o i cassaintegrati aumentano? Ma dove, forse nei Paesi vicini!
I disoccupati, i giovani in cerca di primo impiego, i pensionati, per l’informazione asservita non esistono. Sono degli ectoplasmi,meglio non parlarne, specie ad Agosto. È più redditzio parlare di Fini e dei finiani, delle elezioni o del governo tecnico … tanto tra qualche giorno inizia il campionato di calcio, inizia il tifo, che volete importi ai … telespettatori della Mondadori, di Verdini della P3 o dei ministri e sottosegretari sotto inchiesta.
Viva Berlusconi e il suo governo, viva l’Italia dell’ottimismo senza base, viva l’Italia degli affaristi e dei furbetti, degli intrallazzatori e dei piduisti, viva lItalia degli evasori e dei corrotti, viva l’Italia degli imprenditori senza dignità e senza soldi, dei giornalisti prezzolati e degli organi di controllo asserviti, viva … viva … viva … viva …
È cosa giusta e buona che i lavoratori paghino le tasse e che i nuovi cittadini ne godano!
Meno male che Silvio c’è!
P.S.: mi sembra molto interessante la proposta di Vito Mancuso. Se fossi uno degli intellettuali citati mi schiererei al suo fianco, in una campagna di denuncia su quanto sta accadendo nel nostro Paese, che mortifica il diritto e la carta costituzionale.
Io, autore Mondadori
e lo scandalo "ad aziendam"
di VITO MANCUSO 21 agosto 2010 Repubblica.it
Da quando ho letto l'articolo di Massimo Giannini 1 giovedì scorso 19 agosto non ho potuto smettere di pensarci. Ho provato a fare altro e a concentrarmi sul mio lavoro, ma dato che in questi giorni esso consiste proprio nella stesura del nuovo libro che a breve dovrei consegnare alla Mondadori, mi è sempre risultato impossibile distogliere dalla mente i pensieri abbastanza cupi che vi si affacciavano. La domanda era sempre quella: come posso adesso, se quello che scrive Giannini corrisponde al vero, continuare a pubblicare con la Mondadori e rimanere a posto con la mia coscienza? Come posso fondare il mio pensiero sul bene e sulla giustizia, e poi contribuire al programma editoriale di un'azienda che a quanto pare, godendo di favori parlamentari ed extra-parlamentari, pagherebbe al fisco solo una minima parte (8,6 milioni versati) di un antico ed enorme debito (350 milioni dovuti)? Come posso fare dell'etica la stella polare della mia teologia e poi pubblicare i miei libri con un'azienda che non solo dell'etica ma anche del diritto mostrerebbe, in questo caso, una concezione alquanto singolare?
Io sono legato da tempo alla Mondadori, era il 1997 quando vi entrai come consulente editoriale della saggistica fondandovi una collana di religione e spiritualità, poi nel 2002 ebbi l'onore di diventarne autore quando il comitato editoriale accettò il mio saggio sull'handicap come problema teologico, onore ripetuto nel 2005 e nel 2009 con altri due libri.
Conosco bene i cinque piani di palazzo Niemeyer a Segrate, gli uffici open-space, i corridoi interminabili dove si incontra chiunque (scrittori, politici, cantanti, calciatori, scienziati, matematici, preti, comici...), la mensa dove per parlare con il vicino spesso bisogna gridare, il ristorantino vip, lo spaccio dove si comprano i libri a metà prezzo, le redazioni dei settimanali e dei femminili, l'auditorium dove presentavo ai venditori i libri in uscita e di recente il libro che sto scrivendo. So dove si trovano le macchinette del caffè, luogo di ritrovi e di battute, e di gara con gli amici a chi mette per primo la monetina. Ecco, gli amici. Impossibile per me parlare della Mondadori e non rivedere i loro volti e non provare ancora una volta ammirazione e stima per la loro professionalità. Perché questo anzitutto la Mondadori è: una grande azienda di brillanti professionisti. Del resto a parlare sono i titoli e i fatturati, sono i lettori italiani che continuano a premiare con le loro scelte il lavoro di un'editrice che va avanti dal 1907. Un lavoro in grado di vincere anche in qualità, basti pensare alla collezione dei Meridiani, ai Meridiani dello Spirito, ai classici greci e latini della Fondazione Valla. E se uno avesse dei dubbi, prenda in mano il catalogo degli Oscar e di sicuro gli passeranno, perché si ritroverà tra le mani una vera e propria enciclopedia della scienza editoriale in compendio.
Per questo il mio dubbio, dopo l'articolo di Giannini, è pesante. Leggendo ho appreso che non si tratta più di accettare una proprietà che può piacere oppure no ma che non ha nulla a che fare con le scelte editoriali, cioè con l'azienda nella sua essenza. Stavolta è la Mondadori in quanto tale a essere coinvolta, non solo il suo proprietario per i soliti motivi che non hanno nulla a che fare con l'editoria libraria. Quindi stavolta come autore non posso più dire a me stesso che l'editrice in quanto tale non c'entra nulla con gli affari politici e giudiziari del suo proprietario, perché ora l'editrice c'entra, eccome se c'entra, se è vero che di 350 milioni dovuti al fisco ne viene a pagare solo 8,6 dopo quasi vent'anni, e senza neppure un euro di interesse per il ritardo, interessi che invece a un normale cittadino nessuno defalca se non paga nei tempi dovuti il bollo auto, il canone tv o uno degli altri bollettini a tutti noti.
Eccomi quindi qui con la coscienza in tempesta: da un lato il poter far parte di un programma editoriale di prima qualità venendo anche ben retribuito, dall'altro il non voler avere nulla a che fare con chi speculerebbe sugli appoggi politici di cui gode. Da un lato un debito di riconoscenza per l'editrice che ha avuto fiducia in me quando ero sconosciuto, dall'altro il dovere civico di contrastare un'inedita legge ad aziendam che si sommerebbe alle 36 leggi ad personam già confezionate per l'attuale primo ministro (riprendo il numero delle leggi dall'articolo di Giannini e mi scuso per il latino ipermaccheronico "ad aziendam", ma ho preso atto che oggi si dice così). A tutto questo si aggiunge lo stupore per il fatto che il Corriere della Sera, gruppo Rizzoli principale concorrente Mondadori, finora abbia dedicato una notizia di poche righe alla questione: come mai?
Nella mia incertezza ho deciso di scrivere questo articolo. Spero infatti che a seguito di esso qualcuno tra i dirigenti della Mondadori possa spiegare pubblicamente cosa c'è che non va nell'articolo di Giannini, perché e in che cosa esagera e non corrisponde a verità. Io sarei il primo a gioirne. Spero inoltre che anche altri autori Mondadori che scrivono su questo giornale possano dire come la pensano e cosa rispondono alla loro coscienza. Sto parlando di firme come Corrado Augias, Pietro Citati, Federico Rampini, Roberto Saviano, Nadia Fusini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano... Se poi allarghiamo il tiro alle editrici controllate interamente dalla Mondadori (il che, in questo caso, mi pare oggettivamente doveroso) arriviamo all'Einaudi e a nomi come Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebelsky, Adriano Prosperi... Sono tutte personalità di grande spessore e per questo sarei loro riconoscente se contribuissero a risolvere qualcuno dei dubbi sollevati da questa inedita legge ad aziendam nella coscienza di un autore del Gruppo Mondadori
Mondadori salvata dal Fisco
scandalo "ad aziendam" per il Cavaliere
La somma dovuta dall'azienda editoriale: 173 milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni. Una norma che si somma ai 36 provvedimenti "ad personam" fatti licenziare alle Camere dal premier. Segrate è difesa al meglio: i suoi interessi li cura lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel '91 non ancora ministro. Marina Berlusconi mette da parte 8,6 milioni, in attesa delle integrazioni al decreto. Che puntualmente arrivano
di MASSIMO GIANNINI 19 agosto 2010
Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo. Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente - doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come prima.
Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico. Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso. Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier, il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.
Il prologo: paura a Segrate
La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado. È assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008 l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione. Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni. Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.
Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato. Ma normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico, si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà l'obiettivo.
Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia"
Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13 aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce, quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti tributarie". Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono riservato" che serve alla Mondadori.
L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.
Il secondo tentativo: la Finanziaria
Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano. È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.
Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge, e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco. Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.
Il terzo tentativo: il "decreto incentivi"
Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado, senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo, sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione Finanziaria.
Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30 giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40" sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo "Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale: "L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli regolare "quietanza".
L'epilogo: una nazione "ad personam"?
Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).
È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?
m.giannini@repubblica. It
14 agosto 2010
Chissà cosa può succedere a don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana
12-08-2010 di Ippolito Mauri
Avevamo immaginato che nel cuore delle vacanze la scrittura potesse inventare realtà diverse dalla politica avvelenata che sfinisce le nostre speranze. Ecco i racconti di viaggio di chi sta viaggiando non pensando al ritorno. Ci siamo illusi di liberare la fantasia allontanando, per un attimo, i problemi della realtà perché la vacanza è una dimensione dello spirito: di chi guarda e racconta e di chi ascolta, aspettando. Insomma, un ferragosto così. Ma ecco che il grande corruttore, i suoi giornali e le sue tv, mobilitano le piazze, raccolgono firme contro l’avversario interno del libero partito, colpevole di una colpa privata. Non ha rubato soldi di stato. Non ha truffato la comunità distribuendo appalti agli amici. Non ha sovrapposto l’egoismo delle aziende (che non ha) agli interessi degli elettori. È protagonista di una storia opaca che ne avvilisce l’immagine, ma è una storia privata, estranea alle storie nere di chi ha corrotto il paese. Per non arrendersi ai numeri del Parlamento, il padrino-padrone fa strisciare un colpo di stato al momento sotterraneo, ricatto nelle mani di giornalisti-killer e politici dalla cortigianeria ben renumerata. Raccontare terre lontane quando la terra vicina è in fiamme è il paradosso di questa vacanza paradossale. La serenità del mare e della montagna o delle città vuote per chi non può partire, è la felicità a ore di un futuro prossimo minacciato da chi non ha ormai futuro politico ed è spaventatissimo del possibile futuro giudiziario. Nodi dopo anni al pettine e gioca la carte della disperazione che è anche la disperazione dei «collaborazionisti» che lo aiutano a galleggiare.
L’informazione normale subito la prima vittima. Racconta Mario Giordano, direttore de Il Giornale, costretto alle dimissioni per far posto a Vittorio Feltri; racconta del disgusto nello sfogliare dossier killer, più o meno veri, che mani neanche tanto misteriose (lui sa quali mani) facevano arrivare sul suo tavolo. Storie private da ingigantire, piccoli peccati da far scoppiare; insomma, pistole puntate su obbedienti tiepidi davanti ai dogmi del padrone unico del partito unico. Fare il giornalista vuol dire testimoniare la realtà non esasperarla nella falsificazione per gli ordini di qualcuno. Ecco perché chi racconta che il re é nudo e il re non vuol farlo sapere, può finire male.
Sono sicuro che don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, non nasconda altre vite nei cassetti, ma la minaccia resta. Spiegare da un pulpito trasparente che la «concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici a “servitori”. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. Guai a chi osa sfiorare il potere assoluto»; spiegare che i cortigiani esaltano lo splendore degli abiti di un sovrano che non li indossa; insomma, mentire ed essere smascherati da un prete che fa il giornalista, diventa insopportabile per il signore degli anelli. Ecco la rabbia di chi lo protegge incollato alla sua poltrona. Come è successo al povero direttore dell’Avvenire, si possono inventare tante cose e poi chiedere scusa, appena diventa impossibile andare avanti con l’imbroglio. Ma il risultato è quello sperato: fargli perdere il posto mentre la minaccia mafiosa lampeggia nell’aria: chi tocca il capo muore. Don Sciortino deve fare l’esame di coscienza: se ha dimenticato di pagare una multa, la paghi. Non si sa mai. Nel Brasile anni ’70, la dittatura militare nascondeva la violenza dietro il paravento del «Dio, patria e famiglia», che nelle abitudini di leader politici cattolici italiani può essere moltiplicato in tante «famiglie». E quando vescovi e preti del Brasile non sopportavano l’imbroglio finivano in galera con l’aiuto o il silenzio di giornali e tv, editori compiacenti dalla fede milionaria. Coyotes in doppiopetto, ma coyote senza incarichi politici. Il dramma Italia è questa differenza.
Un’estate fa, il ritorno di Feltri nel Giornale inventato da Montanelli doveva far capire cosa stava per succedere. Era rientrato nelle grazie del Cavaliere sbattendo sulla prima pagina di ‘Libero’ i seni nudi di Veronica Lario, signora Berlusconi, madre di tre ragazzi Berlusconi, moglie avvilita che raccomanda al marito di smetterla con le ragazze più giovani delle figlie. Fulmineo il soccorso di Feltri: signora desnuda: “Veronica velina pentita”. E il difensore della famiglia e dell’Italia cristiana capisce di aver bisogno di un tipo così. Non vuol tornare ai dolori del giovane Berlusconi primo ministro, Bossi che gli dà del mafioso in Parlamento e lo fa cadere. Chi attraversa la sua strada deve sapere cosa lo aspetta.
Prende forma l’operazione giornalisti Kgb. Qualche giorno fa, quando il governo si ferma a 299 voti, lontano dai 316 necessari alla maggioranza, Il Giornale di Feltri e Sallusti ha già in canna la prima, la seconda, la terza, la quarta e la quinta pagina dedicate al Fini traditore con casa sospetta a Montecarlo. L’agonia dell’egemonia di Arcore si nasconde attorno a pagina 9. Giornali e tv, Mediaset e fedeli Rai, non molleranno fino a quando Fini si nasconderà a Canossa. L’altro giornalista Kgb è il Belpietro ridens, devoto a Berlusconi nell’inventare lo scandalo Telekom Serbia nel quale ha coinvolto Prodi, Fassino e i protagonisti scomodi della sinistra. Per tre mesi, ogni mattina, Il Gionale-Belpietro pubblicava dossier giurati da un testimone finito in galera per simulazione: imbroglio gigantesco che ha avvilito la dignità di una commissione parlamentare. All’improvviso ogni notizia scompare. Chissà cos’hanno pensato i lettori.
Feltri aveva lasciato Il Giornale nel 1997 sbattendo la porta “quando ho capito che la famiglia Berlusconi aveva bisogno di un foglio di partito. È un mestiere che non so fare. Impossibile mettermi al servizio di qualcuno diverso dai lettori. Metà Forza Italia mi odiava. A Silvio stavo sulle palle perché una volta lo difendo e una volta lo punzecchio. Ma se il Giornale non andava male una ragione ci sarà e ne ho tenuto conto nella parcella”. Soldi, soldi. In realtà è andato via per aver ammesso sulle carte bollate che le inchieste che infangavano Di Pietro erano inventate di sana pianta. Confessione in prima pagina, campagna berlusconiana sbriciolata. Disinvoltura che lo accompagna da una poltrona all’altra. Quando era direttore dell’Indipendente esaltava quel Di Pietro che subito copre d’infamia appena arriva la chiamata di Berlusconi. Scriveva sull’Indipendente, anni Mani Pulite: “Ammesso che un magistrato abbia sbagliato, ecceduto, ciò non deve autorizzare i ladri e i tifosi dei ladri, gli avvoltoi del garantismo, a gettare anche la più piccola ombra sulla lodevole e non sufficientemente apprezzata attività di Borrelli e Di Pietro…Di Pietro non si è lasciato condizionare da critiche e minacce di mezzo mondo (diciamo dal regime del quale l’appesantito Bettino è campione suonato). Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui grandi giornali. Craxi ha commesso l’errore di spacciare i compagni suicidi come vittime di un complotto antisocialista. È una menzogna, onorevole”. Con quale imbarazzo può adesso guidare l’ammiraglia di Berlusconi con Stefania Craxi pilastro del governo? Tranquilli: un professionista così non trema mai. E non si imbarazza se Chiara Moroni, figlia del suicida di Craxi, con ingratitudine eroica, esce dalla file del partito della libertà «dove non si può aprire bocca» per cercare la libertà nelle truppe finiane. Il Giornale si indigna. Ed è solo l’inizio dell’Italia che ritroveremo dopo viaggi, racconti, vacanze. Se Chiara resiste sulla barricata può venir fuori di tutto. Vero o falso, cosa importa. Il mostro in prima pagina funziona sempre.
Ecco perché don Antonio Sciortino dovrebbe misurare le parole. Non sa com’è pericoloso ripetere che «se qualcosa è bianco dirò sempre bianco» e che non «mi arrampicherò sugli specchi per dimostrare che, guardando meglio, è grigio se non addirittura nero. Perché così vuole il capo. E così i servili replicanti devono ripetere». Gli agenti Betulla sono forse già al lavoro. Dalla vita di don Antonio ai bilanci delle Edizioni San Paolo, il linciaggio non può attendere. Auguri.
tratto da "domani"/arcoiris.tv
12-08-2010 di Ippolito Mauri
Avevamo immaginato che nel cuore delle vacanze la scrittura potesse inventare realtà diverse dalla politica avvelenata che sfinisce le nostre speranze. Ecco i racconti di viaggio di chi sta viaggiando non pensando al ritorno. Ci siamo illusi di liberare la fantasia allontanando, per un attimo, i problemi della realtà perché la vacanza è una dimensione dello spirito: di chi guarda e racconta e di chi ascolta, aspettando. Insomma, un ferragosto così. Ma ecco che il grande corruttore, i suoi giornali e le sue tv, mobilitano le piazze, raccolgono firme contro l’avversario interno del libero partito, colpevole di una colpa privata. Non ha rubato soldi di stato. Non ha truffato la comunità distribuendo appalti agli amici. Non ha sovrapposto l’egoismo delle aziende (che non ha) agli interessi degli elettori. È protagonista di una storia opaca che ne avvilisce l’immagine, ma è una storia privata, estranea alle storie nere di chi ha corrotto il paese. Per non arrendersi ai numeri del Parlamento, il padrino-padrone fa strisciare un colpo di stato al momento sotterraneo, ricatto nelle mani di giornalisti-killer e politici dalla cortigianeria ben renumerata. Raccontare terre lontane quando la terra vicina è in fiamme è il paradosso di questa vacanza paradossale. La serenità del mare e della montagna o delle città vuote per chi non può partire, è la felicità a ore di un futuro prossimo minacciato da chi non ha ormai futuro politico ed è spaventatissimo del possibile futuro giudiziario. Nodi dopo anni al pettine e gioca la carte della disperazione che è anche la disperazione dei «collaborazionisti» che lo aiutano a galleggiare.
L’informazione normale subito la prima vittima. Racconta Mario Giordano, direttore de Il Giornale, costretto alle dimissioni per far posto a Vittorio Feltri; racconta del disgusto nello sfogliare dossier killer, più o meno veri, che mani neanche tanto misteriose (lui sa quali mani) facevano arrivare sul suo tavolo. Storie private da ingigantire, piccoli peccati da far scoppiare; insomma, pistole puntate su obbedienti tiepidi davanti ai dogmi del padrone unico del partito unico. Fare il giornalista vuol dire testimoniare la realtà non esasperarla nella falsificazione per gli ordini di qualcuno. Ecco perché chi racconta che il re é nudo e il re non vuol farlo sapere, può finire male.
Sono sicuro che don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, non nasconda altre vite nei cassetti, ma la minaccia resta. Spiegare da un pulpito trasparente che la «concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici a “servitori”. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. Guai a chi osa sfiorare il potere assoluto»; spiegare che i cortigiani esaltano lo splendore degli abiti di un sovrano che non li indossa; insomma, mentire ed essere smascherati da un prete che fa il giornalista, diventa insopportabile per il signore degli anelli. Ecco la rabbia di chi lo protegge incollato alla sua poltrona. Come è successo al povero direttore dell’Avvenire, si possono inventare tante cose e poi chiedere scusa, appena diventa impossibile andare avanti con l’imbroglio. Ma il risultato è quello sperato: fargli perdere il posto mentre la minaccia mafiosa lampeggia nell’aria: chi tocca il capo muore. Don Sciortino deve fare l’esame di coscienza: se ha dimenticato di pagare una multa, la paghi. Non si sa mai. Nel Brasile anni ’70, la dittatura militare nascondeva la violenza dietro il paravento del «Dio, patria e famiglia», che nelle abitudini di leader politici cattolici italiani può essere moltiplicato in tante «famiglie». E quando vescovi e preti del Brasile non sopportavano l’imbroglio finivano in galera con l’aiuto o il silenzio di giornali e tv, editori compiacenti dalla fede milionaria. Coyotes in doppiopetto, ma coyote senza incarichi politici. Il dramma Italia è questa differenza.
Un’estate fa, il ritorno di Feltri nel Giornale inventato da Montanelli doveva far capire cosa stava per succedere. Era rientrato nelle grazie del Cavaliere sbattendo sulla prima pagina di ‘Libero’ i seni nudi di Veronica Lario, signora Berlusconi, madre di tre ragazzi Berlusconi, moglie avvilita che raccomanda al marito di smetterla con le ragazze più giovani delle figlie. Fulmineo il soccorso di Feltri: signora desnuda: “Veronica velina pentita”. E il difensore della famiglia e dell’Italia cristiana capisce di aver bisogno di un tipo così. Non vuol tornare ai dolori del giovane Berlusconi primo ministro, Bossi che gli dà del mafioso in Parlamento e lo fa cadere. Chi attraversa la sua strada deve sapere cosa lo aspetta.
Prende forma l’operazione giornalisti Kgb. Qualche giorno fa, quando il governo si ferma a 299 voti, lontano dai 316 necessari alla maggioranza, Il Giornale di Feltri e Sallusti ha già in canna la prima, la seconda, la terza, la quarta e la quinta pagina dedicate al Fini traditore con casa sospetta a Montecarlo. L’agonia dell’egemonia di Arcore si nasconde attorno a pagina 9. Giornali e tv, Mediaset e fedeli Rai, non molleranno fino a quando Fini si nasconderà a Canossa. L’altro giornalista Kgb è il Belpietro ridens, devoto a Berlusconi nell’inventare lo scandalo Telekom Serbia nel quale ha coinvolto Prodi, Fassino e i protagonisti scomodi della sinistra. Per tre mesi, ogni mattina, Il Gionale-Belpietro pubblicava dossier giurati da un testimone finito in galera per simulazione: imbroglio gigantesco che ha avvilito la dignità di una commissione parlamentare. All’improvviso ogni notizia scompare. Chissà cos’hanno pensato i lettori.
Feltri aveva lasciato Il Giornale nel 1997 sbattendo la porta “quando ho capito che la famiglia Berlusconi aveva bisogno di un foglio di partito. È un mestiere che non so fare. Impossibile mettermi al servizio di qualcuno diverso dai lettori. Metà Forza Italia mi odiava. A Silvio stavo sulle palle perché una volta lo difendo e una volta lo punzecchio. Ma se il Giornale non andava male una ragione ci sarà e ne ho tenuto conto nella parcella”. Soldi, soldi. In realtà è andato via per aver ammesso sulle carte bollate che le inchieste che infangavano Di Pietro erano inventate di sana pianta. Confessione in prima pagina, campagna berlusconiana sbriciolata. Disinvoltura che lo accompagna da una poltrona all’altra. Quando era direttore dell’Indipendente esaltava quel Di Pietro che subito copre d’infamia appena arriva la chiamata di Berlusconi. Scriveva sull’Indipendente, anni Mani Pulite: “Ammesso che un magistrato abbia sbagliato, ecceduto, ciò non deve autorizzare i ladri e i tifosi dei ladri, gli avvoltoi del garantismo, a gettare anche la più piccola ombra sulla lodevole e non sufficientemente apprezzata attività di Borrelli e Di Pietro…Di Pietro non si è lasciato condizionare da critiche e minacce di mezzo mondo (diciamo dal regime del quale l’appesantito Bettino è campione suonato). Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui grandi giornali. Craxi ha commesso l’errore di spacciare i compagni suicidi come vittime di un complotto antisocialista. È una menzogna, onorevole”. Con quale imbarazzo può adesso guidare l’ammiraglia di Berlusconi con Stefania Craxi pilastro del governo? Tranquilli: un professionista così non trema mai. E non si imbarazza se Chiara Moroni, figlia del suicida di Craxi, con ingratitudine eroica, esce dalla file del partito della libertà «dove non si può aprire bocca» per cercare la libertà nelle truppe finiane. Il Giornale si indigna. Ed è solo l’inizio dell’Italia che ritroveremo dopo viaggi, racconti, vacanze. Se Chiara resiste sulla barricata può venir fuori di tutto. Vero o falso, cosa importa. Il mostro in prima pagina funziona sempre.
Ecco perché don Antonio Sciortino dovrebbe misurare le parole. Non sa com’è pericoloso ripetere che «se qualcosa è bianco dirò sempre bianco» e che non «mi arrampicherò sugli specchi per dimostrare che, guardando meglio, è grigio se non addirittura nero. Perché così vuole il capo. E così i servili replicanti devono ripetere». Gli agenti Betulla sono forse già al lavoro. Dalla vita di don Antonio ai bilanci delle Edizioni San Paolo, il linciaggio non può attendere. Auguri.
tratto da "domani"/arcoiris.tv
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